Address of His Holiness Pius XII
June 2, 1944
Delivered to the Sacred College of Cardinals, Vatican City
È ormai passato un anno, Venerabili Fratelli, dacché nella ricorrenza della festa del Nostro santo Patrono e Predecessore Noi avevamo, per la quinta volta, il conforto di accogliere riconoscenti – dalle labbra del tanto amato e venerato Cardinale Decano, che Ci duole di non vedere oggi in mezzo a noi – i vostri devoti auguri, il dono delle vostre preghiere, la promessa della vostra dedizione ai sempre crescenti doveri ed alle gravi responsabilità dell’Apostolico ministero, il rinnovato pegno della vostra assidua partecipazione alle cure ed alle sollecitudini del Padre della Cristianità. Un anno è passato: «breve aevi spatium» eppure così denso di luttuose tristissime vicende e d’immensi ineffabili dolori; poiché la immane tragedia del conflitto mondiale, svolgentesi dinanzi e intorno a Noi, ha raggiunto gradi e forme di atrocità, che scuotono e fanno inorridire ogni senso cristiano ed umano. Ond’è che al ritorno di questo giorno per Noi festivo, nel vedervi nuovamente qui raccolti, sentiamo il bisogno di confidarvi le intime angosce dell’animo Nostro, e di deplorare con voi l’aggravarsi, tempestoso e sanguigno, delle distruzioni, delle rovine, degli eccidi a tal segno, che quello che, or è un anno, poteva a molti sembrare cosa inverosimile o impossibile, è purtroppo divenuto realtà.
La Città eterna, cellula madre di civiltà, e lo stesso territorio sacro intorno al sepolcro di Pietro, hanno dovuto sperimentare e provare quanto lo spirito degli odierni metodi di guerra, per molteplici cause fattisi sempre più feroci, si sia allontanato da quelle indefettibili norme, che un tempo erano ritenute come leggi inviolabili.
Tuttavia, in mezzo a tanto dolore, non vogliamo omettere di rilevare come la minaccia di incursioni aeree sulle zone non periferiche di Roma abbia fatto luogo a una pratica e un trattamento più riguardoso. Noi nutriamo la speranza che questa più equa e moderata tendenza prevalga su contrarie considerazioni di apparente utilità e sulle cosiddette esigenze e necessità militari, e che l’Urbe sia in ogni caso e ad ogni costo preservata dal divenire teatro di guerra. Perciò non dubitiamo di ripetere ancora una volta con eguale imparzialità e doverosa fermezza: Chiunque osasse levare la mano contro Roma, sarebbe reo di matricidio dinanzi al mondo civile e nel giudizio eterno di Dio.
Se poi passiamo ad osservare le presenti condizioni generali del mondo, Noi siamo testimoni di eventi, che nei loro effetti spirituali e materiali Ci empiono l’animo di giustificata ansietà. Le aspre dissonanze e le lotte fra i figli di un medesimo popolo, che portano in sé i germi delle più dannose conseguenze, creano un’atmosfera, in cui l’autorità della Chiesa, che è al di sopra delle terrene e mutevoli correnti di pensiero, si vede tratta da una o da altra parte nel vortice di controversie, nelle quali non di rado mancano la necessaria chiarezza delle idee ed il giusto equilibrio del giudizio. Così il peso della responsabilità, che grava sulle Nostre deboli spalle, si eleva ed aumenta in misura ignota ad altri tempi e richiede da Noi, giorno per giorno, ora per ora, una vigilanza non mai interrotta, una prontezza di azione che mai non resta, una non mai stanca larghezza di cuore aperto a tutte le anime, che cercano sinceramente la verità e il bene.
Ma qui torna opportuno un richiamo storico ai sentimenti espressi nell’anno 449 da un Vescovo dell’Oriente, Eusebio di Dorileo, in una lettera indirizzata al Papa S. Leone Magno:
Il trono apostolico – egli scriveva – è stato solito fin dal principio di difendere chi ha sofferto ingiustizie… e di sollevare, secondo la possibilità, chi giaceva in terra: voi avete infatti commiserazione per tutti gli uomini. La cagione ne è perché voi siete animati da retto senso e conservate inconcussa la fede al Signor nostro Gesù Cristo, come anche dimostrate una non dissimulata carità verso tutti i fratelli e quanti sono chiamati nel nome di Cristo.
Parole così nobili, che attestano la costante difesa della verità e del diritto da parte di questa Sede Apostolica e il suo amore benefico per tutti i travagliati e gli oppressi, furono dettate dalla esperienza dei primi secoli del Cristianesimo. Ma la Chiesa romana va grata e dà lode al Signore per aver mantenuto, con l’assistenza divina, questa santa costumanza anche nei tempi successivi. Cosicché uno dei più noti storici del secolo decimonono, certamente non sospetto di sentimenti favorevoli verso la Sede di Pietro, non dubitò di confessare al termine della sua opera sulla Città di Roma nel Medio evo che «la storia non ha sufficienti titoli di eroi… per indicare con essi pur soltanto approssimativamente l’attività mondiale, le grandi creazioni e la imperitura gloria dei Papi.»
Mossi pertanto dall’esempio dei Nostri Predecessori, anche Noi, Venerabili Fratelli, consideriamo, in questo tempo di strettezze e di povertà senza esempio, come Nostro sacro dovere di rivolgere la Nostra sollecitudine pastorale, in un’ampiezza finora difficilmente superata o raggiunta, alla indigenza che da ogni parte ci circonda e reclama aiuto. Non già che la Chiesa, massime nell’ora presente, aspiri in qualsiasi modo a vantaggi terreni o a gloria umana; perché ad una sola meta sono tesi di giorno e di notte i Nostri pensieri, come cioè Ci sia possibile di ovviare a così acerba prova, soccorrendo tutti senza distinzione di nazionalità e di stirpe, e come Ci sia dato di cooperare affinché alla umanità tormentata dalla guerra possa essere alfine ridonata la pace.
Se al presente la Nostra premura si volge in modo particolare a Roma, ciò nasce dalle miserevoli condizioni, in cui una così gran parte della popolazione dell’Urbe, che è anche Nostra diocesi, è venuta a trovarsi. Certamente non è questa la prima volta che il turbine scuote la eterna Città. La Roma cristiana nel lungo corso della sua storia ha conosciuto altre e ben aspre avversità: occupazioni e saccheggi, da Alarico all’orrido Sacco del 1527; lotte intestine dei partiti, come nel secolo decimo; abbandono, come nel periodo avignonese e all’epoca del grande scisma d’Occidente; peste, come ai calamitosi giorni del grande S. Gregorio e sotto il Pontefice Sisto IV; fame e carestia per cause naturali, come durante il Pontificato di Clemente XIII negli anni 1763 e 1764. Anche in questa ultima pubblica sciagura si rifugiarono in Roma da tutti gli Stati della Chiesa, e perfino dalla Toscana e da Napoli, le moltitudini affamate, la cui assistenza con alloggio e vitto richiese i più grandi sforzi. Il Papa con instancabile e generosa mano riuscì ad impedire una catastrofe. Eppure che cosa erano i 6.000 profughi di allora, uniti ai meno di 160.000 romani – l’intero Stato Pontificio contava poco più di due milioni di anime – che cosa erano, diciamo, se si paragonano con le condizioni di oggi? col numero degli abitanti, con la inopia, i rischi, le angosce, le separazioni, i dolori di ogni specie, per cui tanti trepidano e soffrono?
In pochi luoghi del suolo italico, per non dire del mondo, sono nell’ora presente tanto grandi, quanto in Roma e nei suoi dintorni, la penuria delle cose necessarie alla vita e il pericolo che essa cresca in un quasi incommensurabile impoverimento di masse intiere di popolo. D’altra parte, la forza di attrattiva, che l’Urbe esercita su molte vittime della guerra, le quali qui cercano ricetto ed ausilio, pone quelli, che si occupano di provvedere alla loro abitazione e al loro approvvigionamento, dinanzi a problemi talvolta pressoché insolubili. Nonostante le lodevoli premure di pubbliche Autorità e di benemerite Associazioni, l’esercito dei poveri cresce di giorno in giorno. Sempre più ansiosi quegl’infelici volgono gli occhi, sempre più supplichevoli levano le mani verso il Padre comune: non pochi di loro si vedono oggi costretti ad invocare quella carità di cui ieri ancora essi stessi erano prodighi.
Fino all’ultimo limite dei Nostri mezzi e delle Nostre forze, appoggiati e sostenuti dalle offerte di anime generose, dalla attività organizzatrice di previdenti e industriosi periti, dal coraggio e dallo spirito di abnegazione di onesti e valenti lavoratori, ai quali tutti bramiamo che vada la espressione della Nostra viva gratitudine, abbiamo spesso potuto far penetrare nella oscurità della più angosciosa miseria e del più crudele abbandono un confortante raggio luminoso di soccorrevole amore paterno – purtroppo non sempre adeguato alla vastità del bisogno e all’intimo impulso del Nostro cuore.
Senza indietreggiare dinanzi a qualsiasi sacrificio, non scoraggiati per alcun rifiuto, non timidi dinanzi a qualsiasi violazione del Nostro diritto, non abbiamo cessato di contribuire, secondo tutte le Nostre possibilità, a sostenere la popolazione di Roma e delle contrade circonvicine almeno coi più necessari ed urgenti alimenti. Abbiamo anche avviato pratiche allo scopo di effettuare il trasporto di viveri per via di mare mediante navi pontificie. Ma si attende ancora il consenso di una delle Parti belligeranti per l’attuazione di una simile impresa, che porterebbe un rimedio veramente efficace a tanto male. Ad ogni modo da parte Nostra non diminuiremo i Nostri sforzi per superare ostacoli e vincere resistenze, acciocché a questa Nostra Città natale ed episcopale, la quale oggidì più che in qualsiasi altro tempo conta fra le sue mura figli e figlie di ogni regione d’Italia, sia, per quanto è possibile, risparmiato, in uno dei più gravi momenti della sua storia ricca di glorie e di dolori, di dover applicare a se stessa le parole del Profeta: «Sta tutto il suo popolo gemendo e cercando pane… I pargoli hanno domandato pane, e non v’era chi loro lo desse.»
Ma al di sopra di tali cure esteriori e degli uffici particolari imposti dalle contingenze di tempo e di luogo sta, Venerabili Fratelli, come Nostro dovere centrale e supremo, dal cui pieno e coscienzioso adempimento nessun potere umano potrebbe distoglierci, nessuna esterna angustia stornarci, l’assoluta obbedienza al comando del Signore:
Pasce agnos meos! Pasce oves meas! Pasci i miei agnelli! Pasci le mie pecorelle!
Questo divino mandato, che dal primo Pietro attraverso la lunga serie dei Romani Pontefici è trapassato fino a Noi, indegno loro Successore, abbraccia nel confuso e dilaniato mondo odierno un cumulo ancor più elevato di sacre responsabilità, e incontra impedimenti e opposizioni, che esigono dalla Chiesa, nel suo Capo visibile e nei suoi membri, una accresciuta alacrità e vigilanza.
Oggi infatti più che mai all’occhio di ogni chiaroveggente e giusto osservatore si rivela il bilancio tristemente passivo, che le scissioni dalla Chiesa Madre nel corso dei secoli hanno cagionato alla Cristianità. In un’epoca torbida e travagliata, come la nostra, quando l’umanità si appresta a trarre le conseguenze di uno scadimento spirituale che l’ha precipitata nell’abisso, e in tutte le Nazioni si levano voci invocanti per l’opera gigantesca del nuovo ordinamento, oltre alle garanzie esteriori, anche gl’indispensabili fondamenti giuridici e morali, sarà di essenziale importanza conoscere quale influsso la corrente delle idee e delle norme di vita cristiana potrà esercitare sul contenuto e sullo spirito di tale futuro ordinamento e contro il ripetersi del predominio di false e funeste tendenze.
La Chiesa Madre cattolica romana, rimasta fedele alla costituzione ricevuta dal divino suo Fondatore, e che anche oggi sta ferma nella solidità della pietra, sulla quale la volontà di Lui la edificò, possiede nel primato di Pietro e dei suoi legittimi Successori la sicurezza, garantita dalle promesse divine, di custodire e di trasmettere integra ed inviolata, attraverso secoli e millenni, sino alla fine dei tempi, tutta la somma di verità e di grazia che nella missione redentrice di Cristo è contenuta. E mentre essa nella stimolante e confortante coscienza di questo duplice possesso trova la sua forza vincitrice di tutti gli offuscamenti dell’errore e di tutti i traviamenti morali, svolge l’opera sua a vantaggio non solo della Cristianità, ma del mondo intero, ispirando sentimenti di conciliante giustizia e di genuino amore fraterno, nelle grandi controversie, in cui spesso benedizione e calamità, messe abbondante e povera raccolta, vengono a trovarsi l’una all’altra vicine.
Ma quanto più forti ed efficaci sarebbero le irradiazioni del pensiero e della vita cristiana sulle basi morali dei futuri disegni di pace e di ricostruzione sociale, se non si avesse la vasta divisione e dispersione delle confessioni religiose, che nel corso dei tempi si sono distaccate dalla Chiesa Madre! Chi potrebbe oggidì non riconoscere quanta sostanza di fede, quanta intima forza di resistenza contro gli influssi antireligiosi siano, a causa di questo distacco, in numerosi gruppi andate perdute?
Di così dolorosa realtà è, fra tante altre, una prova parlante la storia del razionalismo e del naturalismo negli ultimi due secoli. Là ove l’ufficio commesso a chi è investito del primato, «confirma fratres tuos,» non può esercitare e svolgere la sua azione protettrice e preservatrice, la zizzania del razionalismo è penetrata in mille specie diverse, coi suoi culmi e le sue cariossidi infeste, nel pensiero e nel senso di molte anime che si dicono cristiane, e ha intossicato ciò che in esse era ancora rimasto del seme divino della verità rivelata, causando soprattutto oscuramento, scissione e un crescente abbandono della fede nella divinità di Cristo.
Fra Cristo e Pietro vive dal dì della promessa presso Cesarea di Filippo e dell’adempimento sul mare di Tiberiade un vincolo misterioso ma eminentemente reale, occorso una volta nel tempo, ma che affonda le sue radici negli eterni consigli dell’Onnipotente. Il Padre celeste, che a Simone figlio di Giona rivelava il mistero della divina figliolanza di Cristo e lo rendeva così atto a rispondere con una aperta e pronta confessione alla domanda del Redentore, aveva fin dalla eternità predestinato il pescatore di Betsaida al suo singolare ufficio; e Cristo stesso non fece che compire la volontà del Padre, quando nella promessa e nel conferimento del primato usò espressioni, le quali dovevano fissare per sempre la unicità della posizione privilegiata attribuita a Pietro.
Coloro pertanto i quali – come, or non è molto, è stato affermato (o meglio, ripetuto) da alcuni rappresentanti di confessioni religiose che si professano cristiane – dichiarano non esservi un Vicario di Cristo in terra, perché Cristo stesso ha promesso di rimanere con la sua Chiesa come suo Capo e Signore fino alla consumazione dei secoli, oltre che sottraggono ad ogni ufficio episcopale il suo fondamento, disconoscono e travisano il senso profondo del primato pontificio, che è non negazione, ma adempimento di quella promessa. Poiché, se è vero che Cristo nella pienezza della sua potenza divina dispone delle più svariate forme di illuminazione e di santificazione, nelle quali è realmente con quelli che lo confessano; non è men certo che Egli ha voluto affidare a Pietro e ai suoi Successori la guida e il governo della Chiesa universale e i tesori di verità e di grazia della sua opera redentrice. Le parole di Cristo a Pietro non lasciano alcun dubbio sul loro senso: così hanno riconosciuto e creduto l’Occidente e l’Oriente in tempo non sospetto e con mirabile armonia. Voler creare una opposizione fra Cristo come Capo della Chiesa e il suo Vicario, voler vedere nell’affermazione dell’uno la negazione dell’altro, significa stravolgere le più chiare e luminose pagine del Vangelo, chiudere gli occhi dinanzi alle testimonianze più antiche e venerande della tradizione, e privare la Cristianità di quella eredità preziosa, la cui retta conoscenza e stima, al momento a Dio solo noto e mercé il lume della grazia da lui soltanto impartito, potrà suscitare nei fratelli separati il desiderio nostalgico della casa paterna e la volontà efficace di farvi ritorno.
Quando, ogni anno, la sera precedente la festa dei Principi degli Apostoli, Noi visitiamo la Nostra Patriarcale Basilica Vaticana, per implorare sulla tomba del primo Pietro la forza di servire il gregge affidatoci secondo i disegni e i fini dell’eterno e Sommo Sacerdote, dalla maestosa trabeazione di quel tempio eccelso appariscono al Nostro sguardo in fulgido mosaico le potenti parole, con cui Cristo manifestò il suo proposito di edificare la Chiesa sulla rocca di Pietro, e Ci ricordano il Nostro impreteribile dovere di conservare intatto questo incomparabile retaggio del Redentore divino. Mentre poi vediamo rifulgere dinanzi a Noi la gloria del Bernini, e sopra la Cattedra, sorretta in alto dalle gigantesche figure di un Ambrogio e di un Agostino, di un Atanasio e di un Giovanni Crisostomo, miriamo risplendere e dominare in magnifica luce il simbolo dello Spirito Santo, Noi sentiamo e sperimentiamo tutto il carattere sacro, tutta la missione sovrumana, che la volontà del Signore con l’assistenza dello Spirito da lui promesso e mandato ha conferito a questo punto centrale della Chiesa di Dio vivo, «columna et firmamentum veritatis.» E in questa ottava di Pentecoste, dal Nostro cuore e dal Nostro labbro erompe l’invocazione allo Spirito Creatore, affinché desti nei nostri fratelli separati la brama del ritorno alla perduta unità e conceda loro la forza di seguirne l’impulso. Possano tutti coloro, «qui christiana professione censentur,» comprendere quale impareggiabile campo di azione sarebbe riservato alla Cristianità nel momento presente, se in piena unione di fede e di volere dedicassero l’opera loro a salvare la famiglia umana e a prepararla per un migliore avvenire!
Ad aprire i cuori alla speranza di questo più sereno e pacato domani, è certamente indizio significativo che, mentre i mezzi militari di distruzione hanno conseguito un grado di potenza non mai prima conosciuto e il mondo si trova alla vigilia di ancor più drammatici e, a parere di alcuni, forse definitivi eventi, la discussione intorno all’indirizzo fondamentale e alle norme particolari della futura pace attragga sempre più numerosi gli spiriti e trovi una partecipazione e un interesse ognora crescenti.
Se non che, accanto alle voci di saggezza e di moderazione, non mancano altre di mal dissimulata violenza o di aperto annunzio di vendetta. Mentre le prime seguono il pensamento di quel condottiero greco, del quale si legge che stimava insigne la vittoria, in cui la clemenza prevalesse alla crudeltà: «Eam praeclaram victoriam ducebat, in qua plus esset clementiae quam crudelitatis,» le altre invece rammentano da vicino il detto di Cicerone, che la vittoria per natura è insolente e superba: «victoria quae natura insolens et superba est.»
In tal guisa sorge in molti l’impressione e il timore, quasi non vi fosse, anche per i popoli e le nazioni come tali, altra alternativa all’infuori di questa: piena vittoria o distruzione completa.
Dove questo tagliente dilemma è una volta penetrato negli animi, opera col suo funesto influsso come stimolo prolungatore della guerra, anche presso coloro, che per interno impulso o per considerazioni realistiche sarebbero inclini ad una pace ragionevole. Lo spettro di quell’alternativa, la persuasione della vera o supposta volontà del nemico di distruggere la vita nazionale fin nelle radici, soffocano ogni altra riflessione e infondono in non pochi il coraggio della disperazione. Coloro che sono posseduti da tali sentimenti avanzano, come in un sonno ipnotico, attraverso abissi d’indicibili sacrifici e costringono così altri ad una lotta estenuante e dissanguatrice, le cui conseguenze economiche, sociali e spirituali minacciano di divenire il flagello del tempo avvenire.
Perciò è di somma importanza che a quel timore possa subentrare la fondata attesa di oneste soluzioni; soluzioni non passeggiere, né suscettive dei germi venefici di nuovi turbamenti e pericoli per la pace, ma vere e durevoli; soluzioni le quali muovono dal pensiero che le guerre, oggi non meno che in passato, difficilmente possono essere messe a conto e a colpa dei popoli come tali.
A voi, Venerabili Fratelli, è ben noto come, adempiendo un imprescindibile ufficio del Nostro ministero Apostolico, Noi abbiamo già a più riprese e in maniera concreta additato le basi indispensabili in conformità del pensiero cristiano, non solo per ciò che riguarda la pacifica convivenza e collaborazione internazionale, ma anche per quanto si riferisce all’ordine interno degli Stati e dei popoli. Oggi Ci limitiamo ad osservare che ogni retta soluzione del conflitto mondiale deve considerare come ben distinte due gravi e complesse questioni: la colpa nel suscitare o nel prolungare la guerra, da un lato, la configurazione della pace e la sua sicurezza, dall’altro; distinzione che lascia naturalmente intatti i postulati così della giusta espiazione per atti violenti contro persone o cose non richiesti realmente dalla condotta della guerra, come delle necessarie garanzie a difesa del diritto contro possibili attentati della forza.
Questi due diversi aspetti del formidabile problema hanno trovato larga eco nella coscienza dei popoli, ed anche in pubbliche dichiarazioni di autorità competenti si è manifestato il proposito e il volere di dare al mondo, al termine del conflitto armato, una pace comportabile per tutte le Nazioni. Noi desideriamo e speriamo che il prolungarsi della guerra, congiunto col progressivo inasprimento dei metodi bellici, e la conseguente più acuta tensione ed esasperazione degli animi, non finiscano con lo scemare ed estinguere quei sani sentimenti, e con essi la prontezza a subordinare gl’istinti della vendetta e dell’ira, «quae est inimica consilio,» alla maestà della giustizia e della equanimità.
In ogni guerra, se una delle Parti belligeranti riuscisse soltanto con la potenza della spada o con altri mezzi d’irresistibile coercizione a giungere ad un chiaro e non equivoco esito vittorioso, si troverebbe nella possibilità fisica di dettare una pace non equa, imposta con la forza. Ma è pur certo che nessuno, la cui coscienza sia informata ai princìpi della vera giustizia, potrebbe riconoscere a una così precaria soluzione il carattere di sicura e previdente saggezza.
Quantunque infatti possa essere nella natura delle cose che il periodo di transizione fra il termine delle ostilità e la conclusione formale della pace, fino al raggiungimento di una condizione di sufficiente stabilità sociale, sia prevalentemente determinato dal potere del vincitore sul vinto, tuttavia la saggia e per ciò stesso moderata arte politica non dimentica né omette mai di dare alla parte soccombente la speranza, vorremmo dire la fiducia, che anche al proprio popolo e alle sue necessità vitali venga preparato e giuridicamente assegnato un degno posto.
Perciò brameremmo che all’animo dei governanti e dei popoli fosse presente, almeno come ideale a cui tendere, il pensiero fondamentale che ispirò le parole dette in grazia di M. Claudio Marcello dal più insigne oratore dell’antica Roma:
Animum vincere, iracundiam cohibere, victo temperare, adversarium extollere iacentem, haec qui faciat, non ego eum cum summis viris comparo, sed simillimum deo iudico.
Vale a dire:
Vincere sé stesso, frenare l’ira, risparmiare il vinto; sollevare l’avversario caduto, chi queste cose faccia, io non lo paragono già agli uomini sommi, ma lo reputo somigliantissimo a un dio.
Noi Ci auguriamo che tutti i Nostri figli e figlie sparsi sulla terra abbiano la viva consapevolezza della loro corresponsabilità individuale e collettiva al nascere e al formarsi di un pubblico ordinamento conforme alle esigenze fondamentali della coscienza umana e cristiana, sempre memori che, per quanti si gloriano del nome cristiano, ogni proposito di pace sta sempre sotto la indefettibile insegna: «illa respuere, quae huic inimica sunt nomini, et ea, quae sunt apta, sectari.»
Col fervido voto che la grazia dell’Onnipotente faccia presto sorgere sui colli della Città eterna e su tutto il mondo l’aurora di una tal pace, vi esprimiamo, Venerabili Fratelli, la Nostra intima gratitudine per gli auguri così benevolmente offertici per bocca del vostro eminente Cardinale Sotto-Decano, mentre impartiamo di cuore a voi, e a quanti sono a voi particolarmente uniti nel Signore, la Nostra Apostolica Benedizione.